LA SOLA COSA CHE POSSIAMO FARE È DIFENDERCI

 4 Marzo 2020.

Mi incammino verso il reparto. So dove si trova la rianimazione dato che ci sono andato il pomeriggio prima.

Tutto è semibuio e silenzioso, quasi surreale. 

Mi dirigo ad indossare la mia divisa, composta di pantaloni e casacca, e riprendo ad esplorare il luogo. 

Davanti agli occhi mi si staglia un lungo corridoio buio con diversi allarmi gialli e bianchi in sottofondo, 

 accompagnano il mio percorso. Gli allarmi gialli e bianchi sono dati da un dinamismo standard del malato, 

provocati dal respiratore, da colpi di tosse, dal battito cardiaco non regolare o da una saturimetria non ottimale, 

talvolta dati anche da una cattiva lettura. Rumori di sottofondo standard. Ma una sonorità che si staglia su tutte,

 in questa particolare terapia intensiva per i malati covid, è quella prodotta dal respiratore: 

nel reparto ci sono circa dodici malati con grave insufficienza respiratoria, i quali necessitano di una miscela di 

ossigeno puro per riuscire a respirare.


L’ossigeno puro somministrato meccanicamente provoca dei danni all’organismo, ne sono ben amaramente consapevole,

 ma evidentemente quei pazienti ne hanno un assoluto bisogno. Questo tipo di respirazione invasiva consuma quantità di 

ossigeno industriali a causa della grave insufficienza respiratoria acuta, che sopraggiunge in modo allarmante e 

molto velocemente e, ovviamente, necessita di un supporto artificiale enorme. A ciò è dovuto il grosso soffio che odo

 pervadere le mie orecchie in questo luogo dall’aria quasi lugubre. Come quando si entra in una galleria con una grande 

portata d’aria e si percepisce le orecchie quasi sul punto di tapparsi. Non dimenticherò mai quel rumore, quel suono 

tartassante sempre costante durante il lavoro, un suono che preannuncia il disastro, che simboleggia più di tutti a cosa

 saremmo andati incontro, o meglio, con cosa ci saremmo scontrati all’improvviso, senza nessuna motivazione 

giustificabile dalla mente umana. 

Giungo tra il corridoio e il reparto vero e proprio e, mentre comincio la vestizione con lo scafandro, 

vedo venirmi incontro un collega del turno notturno completamente imbacuccato, con lo scafandro a coprirgli tutto il volto, 

di cui riesco a scorgere solo gli occhi. Fa il gesto di abbracciarmi a metri di distanza, io sorrido, lui anche. 

Ma forse me lo sono immaginato, perché non ci vediamo realmente. 

Triste, mi ritrovo a pensare. È triste essere costretti a immaginarci l’espressione facciale dell’altro, all’interno di questo luogo freddo e sterile,

che ci rende bisognosi più di qualsiasi altro di contatto umano, calore fisico.

Invece, dobbiamo combattere contro una gelida impersonalità. 

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